Mi sento di poter azzardare nel definirlo uno dei migliori libri letti in questo 2015, non tanto per la storia in se che trovo semplice e senza particolari intrecci d'effetto, ma per la scrittura diretta ed intelligente dell'autrice.
Nei primi anni cinquanta del XX secolo a Soreni, un piccolo paesino della Sardegna, dove tutti sanno tutto di tutti facendo finta di non sapere, la piccola Maria Listru, ultima e indesiderata di quattro sorelle orfane di padre, viene adottata da Bonaria Urrai, anche lei vedova benestante, ma senza mai essere stata sposata. Maria diventa così una "Fillus de anima ... i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità dell'altra".Maria e Tzia Bonaria, sarta del paesino, vivono come madre e figlia consapevoli entrambe di non esserlo. Si scoprirà alla fine del romanzo che Bonaria aveva deciso di adottare Maria, quando un giorno l'aveva vista rubacchiare delle ciliegie, senza che sul volto della piccola trapelasse "né vergogna né consapevolezza... e le colpe come le persone iniziano ad esistere se qualcuno se ne accorge". A Maria, infatti, "Non le era ancora passato quel vizio, quello di rubare piccole cose di cui non aveva bisogno, ma che desiderava".C'è però qualcosa di misterioso nella vecchia vestita di nero, nei suoi silenzi, nello sguardo timoroso di chi la incontra, nella sapienza millenaria riguardo alle cose della vita e della morte e nelle improvvise uscite notturne che Maria non riesce a comprendere. Quello che tutti sanno e Maria non ancora, è che Bonaria Urrai conosce i sortilegi e le fatture di una culturarimasta arcaica nel profondo, e che quando è chiamata, solo se veramente voluto dall'interessato senza speranza, è pronta a portargli una morte pietosa. Il suo è il gesto amorevole e finale dell'accabadora, l'ultima madre.
E' uno di quei libri che andrebbe letto più volte, per memorizzare alcuni passi importanti che potrebbero servire nella vita di tutti i giorni.
Alcune frasi lasciano la mente in subbuglio, dando motivo di riflessione su argomenti per il quale spesso siamo portati a disinteressarcene fin quando non ci toccano in prima persona.
Uno di questi argomenti è l'eutanasia che in questo racconto diventa il centro della storia dove attorno girano personaggi veramente suggestivi; e quando si arriva al punto di interrogarsi su cosa saremmo in grado di fare trovandoci in una situazione del genere, ecco che l'autrice con una frase riesce a mettere in difficoltà e far vacillare tutte le certezze che si posseggono:
- Non dire mai: di quest'acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata.
Ed è così che Michela Murgia rimprova tutte le persone che hanno l'abitudine di giudicare l'operato degli altri in situazioni del quale spesso non si è veramente a conoscenza; e a mio avviso è proprio questa la risposta che racchiude tutto il pensiero che l'autrice ha avuto il coraggio di svelare attraverso un lavoro di letteratura.
Durante la lettura ho avuto bisogno di fermare la mia voracità per riuscire a leggere tra le righe il messaggio che la scrittrice ha voluto lasciarci in diversi punti del romanzo, dandomi l'impressione di star leggendo più una lezione di vita che una semplice storia.
"-hai capito perchè ti ho picchiato?
-Perchè ho rubato le mandorle
-No. Ti ho picchiato perchè mi hai detto una bugia. Le mandorle si ricomprano, ma alla bugia non c'è rimedio. Ogni volta che apri bocca per parlare, ricordati che è con la parola che Dio ha creato il mondo"
Mi auguro che riusciate a dare una possibilità a queste poche pagine di esser lette e di esser apprezzate come son riuscita a fare io. Per me questo capitolo sarà solo l'inizio di un approfondimento sui lavori di questa notevole scrittrice e spero di potervi ancora parlare di lei nel più breve tempo possibile.
Nel mentre vi saluto come sempre con grande affetto
Alessia
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